Il problema di Revenant, film spettacolare

the_revenant-620x400Se avessi scritto questo post su Revenant appena uscita dalla sala, il mio giudizio non sarebbe stato lo stesso di oggi.
A luci spente, la prima parola che mi è uscita di bocca è stata: “Spettacolare”. Iñárritu mi ha tenuta incollata alla poltrona per due ore e mezza, alimentando in me uno stato di tensione quasi costante. Come salire sulle montagne russe, o su una di quelle giostre che il fiato lo trattieni ma non per paura, perché lo sai che è tutto fatto apposta.
Anche in Revenant pare tutto fatto apposta. L’ho capito solo un paio di giorni dopo, passata l’eccitazione della giostra. E la mia prima impressione si è effettivamente riconfermata: è un film spettacolare, sì, ma forse rischia di essere uno spettacolo e basta.

La storia si spoilera tutta in un trailer: si ispira alla vicenda realmente accaduta a un cacciatore di pelli che, intorno al 1820, viene aggredito quasi mortalmente da un grizzly. Nessuno dei suoi compagni di viaggio credeva sarebbe sopravvissuto, così viene abbandonato in fin di vita nelle gelide foreste del nord Dakota, per impedire agli altri di rallentare la marcia. Ma Hugh Glass, questo il suo nome, sopravvive, e nel film lo fa continuamente. Dovrebbe essere un revenge drama, eppure a muovere l’azione non è tanto la vendetta, quanto la volontà di mettere il redivivo di fronte a una nuova, stupefacente prova estrema di sopravvivenza (dalla quale uscirà sempre incolume… e non è uno spoiler questo, è che altrimenti avrebbero scelto un altro titolo).

Viene da pensare che Revenant voglia a tutti i costi lasciare a bocca aperta. Potrebbe essere stata una precisa volontà del regista, che nel suo ultimo lavoro, Birdman, aveva usato un linguaggio cinematografico volutamente surreale.
C’è da dire, però, che qui ha chiesto a Di Caprio di portare il proprio corpo a livelli estremi attraverso sfide reali: l’attore nuota realmente in fiumi gelidi, stacca davvero a morsi la carne cruda da pesci ancora vivi. Ed è sempre lui a scalare montagne con addosso una pelliccia d’orso completamente intrisa di acqua.27revenantjp3-master675-v2 Realistico è l’uso della luce naturale; realistica e opprimente è la macchina da presa, che aderisce alla neve e alla terra enfatizzando la vastità del paesaggio e la necessità degli uomini di muoversi in posizione non eretta, come quegli stessi animali che vengono combattuti, uccisi, mangiati o convertiti in riparo dal protagonista, lupo tra i lupi, ma anche unico uomo in armonia con la natura.

È un peccato, perché ho l’impressione che lo spettacolare impedisca ad altri elementi di brillare di luce propria. Mi riferisco innanzitutto alla violenza cieca e primordiale dei personaggi, che agiscono spinti esclusivamente da animalesca rapacità, senza mai appellarsi a valori o sentimenti. Fanno eccezione soltanto Glass e il capo dei nativi americani, accomunati dall’amore per i figli: una prole da ritrovare o da vendicare che mette i due personaggi faccia a faccia, giustificando in qualche modo il loro status di vincitori del conflitto. L’importanza dei vincoli familiari era stata il motore di un altro lavoro di Iñárritu, Babel, film di chiusura della Trilogia sulla morte. Con la differenza che qui i legami di sangue, il ricordo delle persone care restano in cotroluce, soffocati nella forza emotiva che potrebbero sprigionare. Del resto in Revenant non si piange mai, non si ride mai, si prova poca compassione. Tanta è invece l’angoscia, mista a repulsione.

Il giudizio che mi sento di dare, oggi, è che il film abbia tantissime qualità inespresse. Potrebbe essere una storia sull’elaborazione del lutto, che passa attraverso il percorso di revenantsuperamento dei limiti fisici e mentali del protagonista. O potrebbe incentrarsi sul rapporto tra l’uomo e la (sua) natura, col suo approccio votato alla totale immersione dello spettatore nel freddo della neve, nelle viscere degli animali squartati, negli aliti di vita di Hugh Glass.
Queste cose ci sono, ma non sembrano approfondite in modo tale da bastare a se stesse. E così danno l’idea di avere una sola funzione: permettere allo spettacolo di continuare, a Di Caprio di cimentarsi in nuove imprese mozzafiato, e allo spettatore di non terminare ancora il suo giro sulla giostra.
Il problema è che prima o poi si scende. E all’ebbrezza succede il rimpianto di un film che, in fin dei conti, aveva tutte le carte in regola per lasciare il segno.

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