Citazione

A cura del cuore.

Cura: dal latino coer che va ricondotto a cor (cuore).

Deriva dalla fusione dall’antico modo di dire quia cor urat (perché scalda il cuore e lo consuma) che le donne usavano pronunciare, come frase di sostegno, ai soldati che partivano per grandi battaglie come a dire: la tua incolumità mi scalda il cuore e lo consuma.

È così che dovrebbe essere: prendersi cura di qualcuno nelle sue grandi battaglie affinché ne esca incolume, perché l’assenza di quel qualcuno consumerebbe il cuore.

Henri-Cartier-Bresson

 

Nanni Moretti, Mia Madre (2015)

In concorso a Cannès, insieme a Sorrentino con Youth e Garrone con Il racconto dei racconti, Nanni Moretti con Mia madre dirige una commedia intrisa di toni drammatici, edulcorati ed esorcizzati da qualche sorriso.

Come tutto il cinema morettiano, anche questo film echeggia squarci biografici del regista: il cinema di Nanni Moretti è Nanni Moretti.

Shots from "Mia Madre"

L’evento attorno a cui si snoda la storia è l’elaborazione di un lutto che sta per avvenire: la scomparsa della madre dei due protagonisti, interpretati da Margherita Buy e Nanni Moretti che, mai come questa volta, sceglie di immergersi in Giovanni, un personaggio sobrio, delicato e premuroso che lascia il lavoro per dedicarsi completamente a sua madre e a sua sorella.

La trama rarefatta del film è sorretta dall’intreccio, a volte onirico, della vita che sconfina nel cinema e del cinema che entra nella vita. Continua a leggere

Identificazione di un autore: Michelangelo Antonioni

Ieri, 8 aprile, ricorreva il cinquantaquattresimo anniversario della prima proiezione italiana de La notte di Michelangelo Antonioni.
Dipinto dalla critica nella cornice del cinema incomunicabile, bollato come regista freddo, incapace di arrivare al pubblico, il cineasta ferrarese è riuscito invece, attraverso La notte, a spalmare sulla realtà cinematografica la realtà dell’amore, un sentimento che ha ispirato l’animo dei poeti in ogni epoca. La sfera dei sentimenti è quella che ha sempre magnetizzato l’attenzione del regista ferrarese. Per definizione essi sono difficili da esplicitare perché sono impalpabili ed astratti. Devono essere prima filtrati dai sensi e, solo dopo che sono stati fatti propri, possono essere espressi. Un processo non immediato dunque, né di facile comprensione. Furono questi legami invisibili, eppure necessari, ad interessare il regista. Egli, per tutta la sua vita, cercò di andare oltre il visibile, scorgendo quello che vive oltre un primo sguardo fugace. Ha scandagliato l’anima dei suoi personaggi, l’ha radiografata, portando alla luce tutte le dicotomie che l’attraversano. Ha comunicato, con il suo inconfondibile sguardo, le ombre e le sfumature che tagliano l’anima, perché è qui che risiedono i sentimenti e sono loro a distinguerci e renderci umani.

Michelangelo Antonioni ha guardato in toto alla sfera dei sentimenti: non ha riversato sullo schermo solo quelli rosei, amorosi, idilliaci e gioiosi, ma ha posto un particolare accento sulla noia, la solitudine, la frustrazione, il malessere interiore e il vuoto comunicativo. Anche i non–sentimenti e la difficoltà nel poterli esprimere sono una parte di quelle ombre che avvolgono l’anima, pertanto sono anch’essi degni di essere raccontati. Questa è una delle motivazioni che lo ha forse reso ostico, almeno in un primo momento, alla critica e al grande pubblico.

La cosa più difficile da trovare nell’amore, è l’amore. Intorno a questo concetto ruota, a mio avviso, la poetica filmica di Antonioni. Parlo di poetica filmica, perché?
La scrittura ha documentato, attraverso la poesia, di riuscire ad esprimere con le parole le ombre e le luci che vivono nell’animo del poeta. L’innovazione di Michelangelo Antonioni risiede nell’aver dimostrato che anche il cinema può, magistralmente, descrivere i sentimenti che popolano l’anima umana. Come? Attraverso un romanzo di tipo fotografico: con una sola immagine, ovvero con un’inquadratura, il regista ferrarese racconta un intero concetto.

Scena del film La notte, di Michelangelo Antonioni

Nel fotogramma preso in esame, tutto ciò è chiarissimo: la cinepresa incornicia la mano affusolata ed elegante di Lidia intenta ad afferrare l’intonaco che si sbriciola lungo le pareti. Adottando lo sguardo antononiano, impariamo a svelare il significato nascosto in questa immagine. La donna, sfiorando il muro, prova ad aggrapparsi a quella realtà che le sfugge di mano ogni giorno, quella stessa che prova a toccare senza però mai riuscirci. La parete rappresenta la realtà dura, cementificata, che recinta le nostre vite inducendoci a volte ad innalzare dei muri, per paura o per difesa e che, difficilmente, riusciamo ad abbattere. Notate con quante parole io ho provato a descrivere un pensiero, senza riuscire comunque ad esplicitarlo totalmente e confrontatelo con l’immagine immediata che Antonioni sceglie per spiegarlo. Continua a leggere

Dear Jane

 

Picasso,_Donna_che_legge,_1932[1]Oggi è la mia giornata.

Oggi incontro la mia Jane. Jane Austen.

È con cuore trepidante che mi avvicino a una delle figure più prestigiose e a mio avviso più affascinanti della letteratura inglese, vissuta tra fine Settecento e inizio Ottocento.

La scrittrice, almeno fisicamente, mi appare corrispondente a quelle poche immagini che avevo visto di lei. Indossa un vestito azzurro polvere, stretto in vita che cade morbido sulla sua figura, lasciando intravedere le sue forme. I capelli sono raccolti in un grazioso chignon e qualche ricciolo ribelle sfugge alla crocchia e si posa sulla nuca.

La guardo da lontano e mi accingo ad entrare nella sua stanza. È proprio come la immaginavo: il suo amato scrittoio, i suoi volumi, carte, carte ovunque, appunti, blocchi e bigliettini sparsi in ogni angolo.

Mi accoglie sorridendo con garbo, movenze eleganti e, indicandomi la poltrona, mi fa gesto di sedere.

«A cup of tea, darling?» mi chiede con un’aria un po’ stanca, lasciandosi abbracciare dalla poltrona.

Si sa: non si può rifiutare una tazza di english tea, anche se fuori ci sono quaranta gradi. Accetto e, sorseggiando lentamente il mio tè, rigorosamente amaro, mi appresto a parlarle.

Mi interrompe.

«Come preferiresti parlare, Vera?»

Con stupore mi accorgo che parla un buffo italiano con un caricaturale accento inglese.

Le spiego che preferisco dialogare in italiano, se non le dispiace, per facilitare così ai lettori la comprensione. Lei mi sorride annuendo.

Le dico che salterò le solite domande di rito, quelle che le avranno fatto, prima di me, fino alla nausea. Non le chiederò quale sia la sua eroina preferita, quale il suo autore d’ispirazione o il suo libro del cuore. Non le chiederò in quale delle sue figure femminili ella si ritrovi.

Le chiederò di perdonare il mio ardire nel vedere in lei, in questo breve frangente, solo una donna intellettuale e un’amica preziosa da cui poter carpire qualche consiglio ricco della sua secolare esperienza.

«Sono una donna innamorata, Jane. Innamorata, ma soprattutto ferita. Vivo una condizione difficile in cui sono combattuta tra i sentimenti che mi legano e le avversità che mi allontanano».

«Oh, dear! Non puoi amare meno qualcuno solo perché ti ha ferita. A meno che non fu con costui tutta sofferenza, null’altro che sofferenza. Ma, mia cara, se fosse stata sola sofferenza, saremmo qui ora a parlarne? I sentimenti non possono provarsi a metà, i sentimenti sono eccessivi, è nella loro stessa natura. Le avversità si superano, bisogna essere capaci di grandi sacrifici e tolleranza».

«Come faccio? Come faccio, Jane, a capire qual è il limite di questi sacrifici, di questa tolleranza?» Continua a leggere