di Valerio Casanova
Ain’t it just like the night to play tricks when you’re tryin’ to be so quiet?
We sit here stranded, though we’re all doin’ our best to deny it
And Louise holds a handful of rain, temptin’ you to defy it
Lights flicker from the opposite loft
In this room the heat pipes just cough
The country music station plays soft
But there’s nothing, really nothing to turn off
Just Louise and her lover so entwined
And these visions of Johanna that conquer my mind
Il vinile segnava il tempo nella stanza infestata. Troppa musica fa quest’effetto, pensava Sas perdendosi tra le curve della voce di Dylan, i corridoi a un certo punto pare ti parlino. Pensò a Massimo, e alla storia del topo. Che in quello studio, diceva, una volta – era sicuro – ci aveva sentito un topo. Aveva provato a prenderlo, in una lotta che era durata almeno mezz’ora: niente. Quando poi arrivò sua madre si misero insieme a cercarlo, ma la mamma – Massimo era cieco – non lo vide da nessuna parte, e nemmeno più lo sentirono. Era il fantasma di un topo, diceva Massimo, e anche se lo diceva con quel suo sorriso c’era una nota seria che ti ci faceva credere, più di quanto ci credesse lui (che è un po’ quello che capitava sempre quando parlava Massimo). Da quando Sas aveva rilevato da lui lo studio di registrazione, anche se di topi non se n’era vista l’ombra, quei fantasmi li sentiva tutti i giorni, e gli piaceva. Gli piaceva sentire le pareti che sussurravano di blues, o di morte, d’amore, di visioni elettriche sulle ossa del viso. Il meglio era quando sedeva da solo in regia ad aspettare; allora tutti i fantasmi lo venivano a visitare, e lui era contento, e si ricordava del perché pagava tutti quei soldi per affittare uno studio nella provincia della provincia di Napoli, città in cui la musica si è fatta e non si fa, dove tutto è rancido e ciò che si muove lo fa, di solito, per andare via. Ma quella volta Sas non era solo.
Now, little boy lost, he takes himself so seriously
He brags of his misery, he likes to live dangerously
And when bringing her name up
He speaks of a farewell kiss to me
“Qua sta parlando di se stesso” disse Fabio accennando alla puntina. “Spettacolo”. Fabio diceva sempre spettacolo, quando qualcosa gli sembrava oltre il normale, superiore, artisticamente significativa; come preso da un gusto infantile e insieme barocco. Un verso che esplode tra armonica e chitarra: spettacolo. “Tu che ne pensi del fatto della pugnetta?” Sas si riprese dai pensieri e aggrottò la fronte. “La pugnetta – spiegò Fabio – il fatto che in realtà Visions of Johanna alla fine è il racconto di lui che si fa una sega su un giornaletto porno”.
“Ma che strunzat’! – protestò Sas ridendo – No ià, ti prego, questa chi l’ha detta?”.
“E non mi ricordo più chi l’ha detta, ma mi sa che l’ho letta su qualche articolo che parlava di canzoni sulla masturbazione – tipo Disperato Erotico Stomp – oppure in un libro di Welsh, tipo”.
“Tarantino non è possibile? Mi pare una cosa alla Tarantino”.
“Pure a me mi pare una cosa alla Tarantino, ma no, me lo ricorderei”. – Lo disse con la solita sicumera cinematografica, Fabio, lui che era abituato a catalogare (e a collezionare, che è peggio) libri, film, dischi. Tutto tutto, tanto che i più cattivi tra i suoi amici lo chiamavano database. Quella sera comunque con la memoria non gli stava andando granché bene. “Però ha una sua logica, eh. Louise e il suo amante sarebbero ‘ste figurelle che lui vede sul giornale, e da lì, mentre si fa una sega, pensa a Johanna. Poi ovviamente questo sarebbe sempre il significato letterale”.
“Ma infatti, il bello di ‘sto pezzo sono le visions, non il significato letterale”. Disse “visions” così: [‘vɪʒnz], in american english strettissimo. Continua a leggere