La poesia che non ho scritto #8. Da “L’epilogo della tempesta” di Zbigniew Herbert

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Ho dato la mia parola

ero molto giovane
e il buon senso consigliava
di non dare la mia parola

potevo dire apertamente
ci penserò ancora
non c’è fretta
non è l’orario dei treni

darò la mia parola dopo la maturità
dopo il servizio militare
quando avrò messo su casa

ma il tempo esplodeva
non c’era più un prima
non c’era più un dopo
nell’accecante presente
toccava scegliere
e così diedi la mia parola

la parola –
un cappio al collo
l’ultima parola

nei rari momenti
in cui tutto diventa leggero
acquista trasparenza
io penso
«do la mia parola
volentieri
ritirerei la parola data»
ma dura poco
perché ecco – cigola l’asse del mondo
passano le persone
i paesaggi
i cerchi colorati del tempo
e la parola data
mi fa un groppo in gola

 

32fe833dce51df0052fea6b452e01645_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyL’ epilogo della tempesta è l’ultima opera pubblicata in vita dal poeta polacco Zbigniew Herbert. Poeta identificato spesso con l’attributo di “classico”, per i richiami al mondo antico, per il dissenso che inonda la sua opera negli anni del totalitarismo e la forte presenza della tradizione, sembra qui tirare le somme della sua vita, aprendo il proprio io lirico, in poesie che appaiono come continue confessioni. È qui che la famosa maschera poetica herbertiana del Signor Cogito fa la sua ultima apparizione.

Anche questa lirica, come la precedente della rubrica (vedi Mark Strand) si concentra sul mancato, su ciò che non è stato, sullo scarto tra ciò che sarebbe potuto essere e ciò che è realmente accaduto. Quella distanza sulla quale cigola l’asse del mondo, su cui il poeta riflette, pagando in vecchiaia la leggerezza e le parole della giovinezza. Continua a leggere

CINQUANT’ANNI DOPO. 1967-2017. I territori palestinesi occupati e il fallimento della soluzione a due Stati.

cinquant'anni dopo palestina

di Davide Fusco | Ci siamo incrociati in un afoso pomeriggio del giugno scorso. S’era a pochi giorni dalla sua immissione nel mercato librario, e Michele Giorgio lo presentava ai lettori in un parco pubblico casertano. Cinquant’anni dopo è un testo che ha la natura d’un veicolo low cost, sul quale mettersi comodi per viaggiare in direzione d’una terra distante, ma cruciale nell’assetto geo-politico mondiale. Il saggio, pubblicato nel 2017 da Edizioni Alegre, con le sue pagine trasporta il lettore in Palestina, facendogli scrutare le faccende socio-economiche e politiche dei cinquant’anni intercorsi tra la fine della guerra dei sei giorni ad oggi.

Gli autori: Michele Giorgio e Chiara Cruciati.

Entrambi da anni operano come giornalisti a Gerusalemme: il primo è dal 1994 corrispondente del Manifesto in Medio Oriente; la seconda è caporedattrice dell’agenzia di stampa indipendente Nena News.

Il testo.

Esordisce dipingendo un nitido quadro della guerra dei sei giorni, che segna l’avvio della colonizzazione israeliana della Palestina storica, costituita da territori quali Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Questa fase del saggio è fondamentale per la comprensione del processo col quale gli israeliani hanno progressivamente schiavizzato i palestinesi riducendoli ad uno stato da apartheid. Nell’arco temporale descritto, s’adempie un piano preordinato, volto a disgregare da un punto di vista politico e territoriale il popolo palestinese. Questo diabolico piano è ormai prossimo al suo pieno adempimento. A palesarlo è: da un lato, la rivaleggiante discordia dei due attuali governi palestinesi, Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania; Continua a leggere

Petrarchive e la nuova strada delle Digital Humanities

I manoscritti e le opere digitalizzate, negli ultimi anni, stanno aumentando notevolmente. Si tratta del resto della principale occupazione delle Digital Humanities (lo scopo più immediato, almeno), ma non sempre il più semplice da perseguire. In fin dei conti, se si vuole lavorare ai testi usando i PC, la prima cosa da fare è trascrivere gli stessi testi al computer: per quanto il concetto sia lapalissiano, metterlo in pratica lo è di meno.

Un testo utilizzabile per le Digital Humanities non può – né deve – essere una mera trascrizione: deve essere “codificato” per essere “processato”. Per questo i testi vengono digitalizzati in diversi formati: in PDF per la stampa, in ePub per i lettori digitali e in TEI/XML per la ricerca.

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Alcuni vantaggi di un testo codificato li abbiamo già visti nell’esperimento del “Quantitative Formalism”: il computer, processando determinati tag attribuiti al testo, è in grado di eseguire ricerche e varie operazioni computazionali, ottenendo talvolta risultati sorprendenti. [1]

Il mondo anglosassone è molto più avanti nell’elaborare questi tipo di proposte. Continua a leggere

Le Cime Tempestose di Emily Brontë: la scrittura come mezzo di trasmigrazione

di Valentina Pagano| La letteratura racchiude in sé una forza estremamente affascinante che corrisponde al potere dell’estraniazione. C’è un fil rouge che crea una connessione tra chi fa letteratura e chi legge: la possibilità di creare e vivere in nuovi mondi, realtà parallele che si discostano dalla vita fenomenica.

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Copertina della prima edizione originale del 1847

Mi piace pensare alla scrittura come ad un pezzo di argilla informe, che mediante le mani sapienti dell’artigiano può calarsi in diverse forme, assumendo ogni volta una nuova identità con le sue corrispettive funzioni. Così la letteratura viene modellata dallo scrittore, il quale ha la facoltà di donarle dei connotati e uno scopo: si scrive, infatti, per far conoscere le proprie idee, per raccontare di sé, per sfoggiare determinate capacità retoriche, per creare un varco di evasione.

Chi ha fatto uso della scrittura come zattera a bordo della quale poter solcare il mare dell’immaginazione, osservando da lontano la staticità di un porto che corrisponde alla propria esistenza è di certo la scrittrice Emily Brontë, un pilastro della letteratura inglese dell’Ottocento, nota ai più come l’autrice di Cime Tempestose, un romanzo cult che non può mancare nella biblioteca di chi trae piacere dalla lettura di romanzi dallo stampo tipicamente borghese.

Emily si serve delle sue opere per farsi attraversare da quelle emozioni di cui la sua vita era manchevole, un’esistenza in cui la scrittrice attribuiva alla morte un senso di estrema familiarità; a riguardo Nadia Fusini, una delle più importanti studiose della Brontë, in Charlotte, Emily o della privazione (contributo contenuto nell’opera di più ampio respiro Nomi. Il suono della vita di Blixen, Dickinson, Woolf, Stein, Brontë, Shelley e Yourcenaur, Feltrinelli Editore, Milano 1986) ci dice:

“La morte non minaccia Emily in nulla. C’è sempre stato, a battere il ritmo della giornata, il rintocco delle campane nella casa-parrocchiale che affaccia sul cimitero; si che per Emily si sono confusi i suoni della vita e della morte, i loro tempi”.

Nata nel selvaggio Yorkshire, figlia di un pastore anglicano, educata secondo rigidi dettami, ella fu affetta da una sorta di “pigrizia fatale”, volendo citare ancora le parole della Fusini, che aveva così definito la tendenza della scrittrice a porsi da spectator piuttosto che da agens nei confronti della sua stessa esistenza; Continua a leggere

La poesia che non ho scritto #6. Tre poesie da Collected Poems di Frank O’Hara

frank ohara

A step away from them

It’s my lunch hour, so I go
for a walk among the hum-colored
cabs. First, down the sidewalk
where laborers feed their dirty
glistening torsos sandwiches
and Coca-Cola, with yellow helmets
on. They protect them from falling
bricks, I guess. Then onto the
avenue where skirts are flipping
above heels and blow up over
grates. The sun is hot, but the
cabs stir up the air. I look
at bargains in wristwatches. There
are cats playing in sawdust.
On
to Times Square, where the sign
blows smoke over my head, and higher
the waterfall pours lightly. A
Negro stands in a doorway with a
toothpick, languorously agitating.
A blonde chorus girl clicks: he
smiles and rubs his chin. Everything
suddenly honks: it is 12:40 of
a Thursday.
Neon in daylight is a
great pleasure, as Edwin Denby would
write, as are light bulbs in daylight.
I stop for a cheeseburger at JULIET’S
CORNER. Giulietta Masina, wife of
Federico Fellini, è bell’ attrice.
And chocolate malted. A lady in
foxes on such a day puts her poodle
in a cab.
There are several Puerto
Ricans on the avenue today, which
makes it beautiful and warm. First
Bunny died, then John Latouche,
then Jackson Pollock. But is the
earth as full as life was full, of them?
And one has eaten and one walks,
past the magazines with nudes
and the posters for BULLFIGHT and
the Manhattan Storage Warehouse,
which they’ll soon tear down. I
used to think they had the Armory
Show there.
A glass of papaya juice
and back to work. My heart is in my
pocket, it is Poems by Pierre Reverdy.

A un passo da loro

È ora di pranzo, allora faccio
un giro tra i taxi ronzanti.
Prima, sul marciapiede
dove gli operai riempiono i loro
torsi sporchi e luccicanti di sandwich e
coca-cola, con i loro elmetti gialli in testa.
Li proteggono dai mattoni che cadono, suppongo.
Poi sopra la Avenue dove le gonne
ruotano sopra i tacchi
e si alzano sulle grate.
Il sole è cocente, ma i taxi mescolano l’aria.
Guardo gli sconti sugli orologi da polso.
Ci sono dei gatti che giocano nella segatura.

Su
verso Times Square, dove un cartello
soffia fumo sulla mia testa,
e più in alto una cascata di luci. Un Negro
sta in un portone con in bocca
uno stuzzicadenti e apatico lo muove.
Una bionda in fila gli fa l’occhiolino:
lui sorride e si gratta il mento.
Tutto improvvisamente è un clacson che suona:
sono le 12:40 di un giovedì.
I neon nella luce del giorno sono deliziosi,
come scriverebbe Edwin Denby, come
lo sono le lampadine nella luce del giorno.
Mi fermo per un cheeseburger al Juliet’s corner.
Giulietta Masina, la moglie di Federico Fellini, è bell’attrice.
E frappè al cioccolato. Una signora in volpe
in una giornata come questa fa salire il barboncino
su un taxi.

Ci sono tanti Porto
Ricani sull’Avenue oggi e ciò
la rende bella e calda. Prima
è morta Bunny, poi John Latouche,
poi Jackson Pollock. Ma la terra è piena
come piena fu la loro vita?
E uno ha mangiato e uno va a spasso,
lasciandosi alle spalle le riviste di nudi
e i manifesti della CORRIDA e il Manhattan Storage Warehouse,
che presto butteranno giù. Ho sempre pensato
che ci avrebbero fatto l’Armory Show lì.
Un bicchiere di succo di papaya
e di nuovo al lavoro. Il mio cuore
ce l’ho in tasca, è il libro di Poesie di Pierre Reverdy.

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