Facebook, Cambridge Analytica e la manipolazione

Antefatto

Nel 2014, lo psicologo Aleksandr Kogan realizza un’app che permette di conoscere la propria personalità in base all’utilizzo di Facebook. L’unica azione da compiere è iscriversi tramite “Facebook Login”, il sistema di Facebook che permette di creare un profilo tramite le credenziali del social (quello che c’è anche su Spotify, per intenderci). Il sistema è «gratuito», che in rete significa che il prodotto sei tu. Utilizzarono l’app appena 270 mila persone, ma, secondo le regole di Facebook di allora, Kogan ottenne anche i dati dei loro amici: fu così che si ritrovò fra le mani un database di 50 milioni di profili, che comprendevano foto, “mi piace”, condivisioni, post pubblici. Kogan, andando contro le condizioni d’uso di FB, li condivise con una società inglese, Cambridge Analytica.

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Cambridge Analytica

Cambridge Analytica era stata fondata un anno prima. È una società di marketing online che si occupa di raccogliere dati sui social, elaborarli tramite modelli e algoritmi e trovare i profili più adatti per la pubblicità mirata. Cambridge Analytica «sostiene di riuscire a individuare soggetti sensibili a operazioni di marketing, combinando la scienza comportamentale con l’analisi dei dati dei consumatori. Conduce sondaggi e raccoglie dati da un’ampia varietà di fonti, tra cui social network come Facebook.»[3]

Il nome della società viene dall’algoritmo sviluppato da un suo ricercatore, Michal Kosinki, che ha studiato a Cambridge. Il suo algoritmo è talmente sofisticato da ricavare dati psicologici da relativamente pochi “mi piace”: secondo il suo ideatore, con 70 mi piace si conosce la personalità di un utente meglio di quella dei propri amici; con 300 se ne sa più di quanto ne sappia il partner.

Sono stati dati in pasto a questo algoritmo i dati dei 50 milioni di profili dell’applicazione di Kogan: i dati non sono stati rubati, Facebook non è stata “hackerata”, tutto è avvenuto in totale trasparenza. Kogan ha semplicemente infranto una regola di Facebook, quella di non condividere con parti terze dati che ha ottenuto con gli strumenti forniti da Facebook stessa. Cambridge Analytica – attraverso tecniche psicometriche – poteva creare pubblicità personalizzata per ogni singolo utente fra quei 50 milioni (si chiama micro-targeting comportamentale).

A questo punto, un dipendente della società, Christopher Wylie, fa uscire la storia [1] raccontando tutto ai quotidiani statunitensi Observer, The Guardian e New York Times, che accusano Facebook di non aver bloccato la società. Continua a leggere

Questioni di privacy: da Snowden all’iPhone di San Bernardino

Quelle che sto per raccontare sembrano ormai cose già sentite, storia vecchia: lo scandalo Snowden, quello che la cronaca italiana ha battezzato Datagate, e l’iPhone di uno dei terroristi di San Bernardino, quello per il quale l’FBI ha chiesto alla Apple un software in grado di sbloccarlo e che la società di Cupertino si è rifiutata di sviluppare. Sì, decisamente roba “obsoleta”, ma credo non tutti abbiano riflettuto a fondo su quello che sia realmente accaduto. In ballo c’è la credibilità di una società (e i suoi guadagni), una finta questione di sicurezza e la nostra privacy online.
In principio c’era Snowden. Snowden era un agente dell’NSA che decise di rivelare cosa facesse in realtà la sua agenzia di spionaggio: attraverso una serie di accordi con le maggiori società informatiche snowdenstatunitensi (fra cui Facebook, Microsoft, Google, Apple e Yahoo), aveva libero accesso a tutto quello che i cittadini degli Stati Uniti, e buona parte di quelli del mondo (fra cui almeno 10 milioni di italiani), facessero online [1]. Gleen Greenwald, il giornalista che intervistò Snowden sollevando il polverone, ritiene che la scusa adottata dall’NSA è tanto subdola quanto inutile: l’agenzia federale, infatti, basò la sua difesa su due punti: 1) il progetto serviva per la sicurezza nazionale e 2) se non si aveva nulla da nascondere, nulla c’era da temere. Greenwald, nel suo libro No place to hide, smonterà le argomentazioni dell’NSA in maniera molto efficace: per quanto riguarda il primo punto, la raccolta di dati non aveva portato a nessun arresto, mentre per il secondo scriverà che ci sono cose assolutamente legali che uno può fare, ma che fa solo finché sta da solo, senza nessuno lo stia osservando. Per il giornalista, infatti, tutto il progetto non serviva ad altro se non spiare la popolazione, che rappresenta la massima forma di controllo, istituendo diversi parallelismi con 1984 di Orwell. Ma il punto di questo articolo è un altro. All’epoca dei fatti, il 2013, i grandi colossi dell’Internet rilasciarono poche dichiarazioni rispetto alla gravità dell’accaduto, ma subirono il contraccolpo: nacquero e crebbero servizi che garantivano l’anonimato, come Telegram. Ed ecco che entra in scena il mercato. Continua a leggere

«Se un cliente non paga non è portfolio, ma sfruttamento»: il social media management secondo Proforma

Proforma è una società che dal 1996 offre servizi di comunicazione a privati e imprese. Lavorando sui media tradizionali e digitali punta alla promozione innovativa di aziende, marchi, prodotti, idee e progetti. 01 Distribution – Rai Cinema, Auchan Ipermercati, Fandango, Laterza Editori, Universal Pictures, Nichi Vendola e Michele Emiliano sono solo alcuni tra i soggetti e le realtà che l’hanno scelta per le loro campagne pubblicitarie ed elettorali.

Daniele Magliocca è il social media manager e media planner di Proforma. Nonostante i suoi tantissimi impegni mi ha concesso un’intervista – colgo l’occasione per ringraziarlo nuovamente – sulla figura del social media manager e sulle questioni etiche e professionali di fronte alle quali è messo ogni giorno.

social media managementPartiamo dalle basi: chi è il social media manager?

Tra i cosiddetti social media cosi, il social media manager è il responsabile del regolare funzionamento dell’ingranaggio. Se si inceppa, i guai sono tutti suoi. È una persona dotata di ragionevolezza, nervi saldi, con una buona conoscenza quantomeno della lingua italiana; è sempre attento a quello che succede on e offline. Se non possiede abilità proprie, lavora in combutta con un grafico, e già per questo dovrebbero dargli una medaglia. Il suo compito principale è quello di mantenere viva l’attenzione nei confronti di un profilo, di una pagina o di un canale social. Pertanto è lui che costruisce il piano editoriale e lo attua o personalmente con meticolosità quotidiana o grazie all’utilizzo di tool di posting management.

È lui infine che analizza i dati, monitora e gestisce le interazioni.

Ti è mai capitato di lavorare per un prodotto, un’idea o una persona di cui non avevi una buona considerazione? Se la tua visione entra in conflitto con quella che vuole comunicare l’impresa o il personaggio, immagino si apra un problema etico: come se ne esce?

Fortunatamente no. Comunque penso che la decisione di portare avanti un lavoro non debba mai essere accompagnata da un conflitto. Al contrario è sempre auspicabile che social media manager e cliente entrino in simbiosi, che tra i due si instauri una sorta di tsaheylu, quell’incredibile legame tra Na’vi e Ikhran che Cameron ci ha mostrato nel film Avatar.

Per un tecnico della comunicazione c’è un modo per capire se il prodotto è destinato a un fallimento certo? In quel caso, consigli di essere onesti con il proprio cliente? Anche a costo di perderlo?

Non esiste un metodo infallibile e assoluto per capire se un prodotto è fallimentare. Esistono studi di mercato e analisi che restituiscono probabilità di successo o, al contrario, di insuccesso. Quando queste social-media-managementultime sono alte sarebbe corretto parlarne con il cliente, anche a rischio di perderlo. Tanto lo si perderebbe comunque.

Vivo in provincia di Caserta, e dalle mie parti ci sono tantissime piccole imprese gestite da una o due persone, che non hanno però un buon rapporto con i social: le loro bacheche personali denunciano scarsa empatia, poco interesse e forse anche una considerazione negativa di questi mezzi, che vengono associati, tra l’altro, al mondo di Internet in generale. Eppure, quegli stessi imprenditori si rivolgono poi ai tecnici della comunicazione nella speranza di far crescere la propria impresa. Rispetto a questa cosa, ti chiedo: quanto è efficace per un imprenditore sviluppare un discorso comunicativo attraverso un medium in cui non crede?

Credere o non credere in un medium non deve essere frutto di una intuizione personale. Per fortuna oggi circolano tanti dati che aiutano a capire le potenzialità dei diversi media, allontanando il rischio di scelte infondate e, spesso, sbagliate. Diventa sempre più vitale studiare e ridurre al minimo l’approssimazione e il famoso intuito. Solo così si può modificare la percezione dello strumento e aumentare la fiducia nei suoi confronti.

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Il potere di una falsa narrazione: omofilia e disinformazione

L’informazione è un fenomeno di contagio sociale in cui a passare di testa in testa è un concetto, non un virus. Continuamente, infatti, recepiamo informazioni e le diffondiamo a nostra volta, “infettando” altre persone. E se nel mondo biologico a difenderci dai patogeni è il nostro sistema immunitario, nel mondo digitale la rete sociale in cui siamo inseriti ha un forte effetto sulle probabilità di contagio.

Negli anni Cinquanta, i sociologi della comunicazione Lazarsfeld e Merton hanno coniato il neologismo “omofilia” nell’ambito di una ricerca su come6Virale si formano e strutturano le relazioni amicali. Il termine ha oggi grande successo negli studi sulla fenomenologia del comportamento in rete: omofilia, scrive Giovanni Boccia Artieri, è «incontrare contenuti incapaci di produrre differenze rispetto al nostro modo di pensare […]. Le ricerche hanno evidenziato come la nostra socialità tenda a conformarsi secondo un principio per cui è la somiglianza a generare connessione, che è, appunto, il principio di omofilia».

In che modo queste dinamiche relazionali permettono a una falsa informazione di diventare virale? Walter Quattrociocchi, coordinatore del Laboratory of Computational Social Science dell’IMT di Lucca, ha presentato pochi mesi fa il risultato delle ricerche condotte dal proprio team di informatici sul ruolo di omofilia e polarizzazione nell’ambito della disinformazione digitale. Un monitoraggio condotto nell’arco di quattro anni, e diviso in due fasi. Nella prima gli informatici hanno analizzato post e like di 73 pagine aperte su Facebook Italia: 34 scientifiche e 39 cospirazioniste, seguite in totale da 1,2 milioni di utenti sparsi per il paese. Sono così riusciti a stabilire matematicamente che il numero di “Mi piace” su un determinato post è direttamente collegato al numero di amici all’interno del grado medio che usufruiscono dello stesso tipo di contenuto. 6IntelligenzaCollettivaDi conseguenza, più il fake – la “bufala” – è condiviso da persone che conosciamo e di cui ci fidiamo, più aumentano le possibilità di crederci a nostra volta. Nella seconda fase, l’équipe ha analizzato 4709 fake status pubblicati da pagine satiriche italiane considerate attendibili dagli internauti. Status condivisi (vedi il “Fai girare” tipico di molti di questi post) da utenti molto polarizzati, ovvero seguaci di numerose pagine di “controinformazione”. Continua a leggere