La poesia che non ho scritto #7. (A vent’anni) da Blizzard of one di Mark Strand

Portrait Of Mark Strand

 

Cos’era

(What it was)

 

I

 

Era impossibile da immaginare, impossibile

da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che proiettava,

che cadeva a riempire l’oscurità del proprio freddo,

il suo freddo che cadeva fuori di sé, fuori di qualsiasi idea

di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,

una macchia, un punto, un punto entro un punto, un abisso infinito

di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che affoga

in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno

di un suono; e la sua fine, il suo vuoto,

il suo vuoto tenero, piccolo, che colma la sua eco, e cade,

e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,

e sempre perché, e solo perché, una volta essendo stato, [era…

 

II

 

Era l’inizio di una sedia;

era il divano grigio; era i muri,

il giardino, la strada di ghiaia; era il mondo in cui

i ruderi di luna le crollavano sui capelli.

Era quello, ed era più di quello. Era il vento che sbranava

gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava

di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire

che sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti

mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.

Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno

che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore era tanto grande

da contenerlo. Era la stanza che sembrava immutata

dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello

che s’era dimenticata, la penna lasciata sul tavolo da lei.

Era il sole sulla mia mano. Era il calore del sole. Era come

sedevo, come aspettavo per ore, giorni. Era quello. Solo quello.

 

Traduzione di Damiano Albeni

 

Quando Mark Strand venne tradotto per la prima volta in Italia raccontò a Damiano Albeni, suo traduttore, Continua a leggere